Era il lontano 1955 quando Vittorio de Seta, padre del documentario etnologico italiano, vinceva il festival di Cannes col suo Isole di fuoco, un documentario sulle difficili condizioni di vita delle isole Eolie di quegli anni. Capace di cogliere “un altro sguardo” De Seta ha dedicato la vita a raccontare attraverso il cinema la realtà degli ultimi, cercando di dare voce a chi altrimenti non sarebbe mai stato ascoltato, cercando di capire realtà lontane non solo geograficamente, ma anche a livello umano.

Ed è questa tensione, questo anelito di comprensione, questo porsi domande e cercare risposte non scontate che dovrebbe essere la spinta per realizzare ogni documentario.

Quello che ho cercato di fare, andando in giro a testimoniare culture e realtà così diverse da quella occidentale, è stato cercare di spogliarmi da ogni pregiudizio. Un allenamento a volte difficile, che richiede una certa disciplina perché tutti partiamo pieni di buoni propositi ma poi ci scontriamo con  una realtà dei fatti assai diversa da quella che ci aspettavamo e con l’ansia da prestazione di portare a casa un risultato perché c’è chi ha investito dei soldi  e se non abbiamo il girato non lavoriamo più.

Il cinema etnografico, soprattutto quando si tratta di raccontare paesi e culture lontane, è prima di tutto un percorso dell’anima, un mettersi in gioco in prima persona disposti anche a cambiare punto di vista durante le riprese. Personalmente, il progetto dei sentieri ha richiesto molta malleabilità, fantasia, velocità di decisione. Molte volte siamo andati in luoghi nemmeno segnati sulle cartine geografiche, con pochissima documentazione prima della partenza, affidandoci a missionari, guide locali od organizzazioni sul campo che però ben poco ci dicevano prima della partenza. Proprio per questo una delle difficoltà maggiori è stata quantificare la durata dello shooting. Quanto tempo ci sarebbe voluto per riuscire a trovare persone interessanti da intervistare, storie da raccontare, luoghi di cui non era chiara la distanza dalla città o da qualunque altro luogo segnato su un atlante?

Sempre tenendo presente che si lavora con un budget non propriamente alto. La cura del piano di riprese quindi, è stato il primo elemento fondamentale per la buona riuscita del progetto e l’ho realizzato sicuramente raccogliendo quante maggiori informazioni possibili, ma anche con un certo intuito dovuto all’esperienza di viaggio. Considerando ad esempio che un percorso lungo  100 km su terreno sterrato avrebbe potuto durare, in alcuni casi, due o tre giorni.

Devo dire che spesso gli spostamenti sono diventati giorni di shooting per raccontare il contesto naturale e talvolta anche umano. Nel caso dei Baka per esempio, fu proprio durante un trasferimento che avemmo la fortuna di incontrare un gruppo tradizionale che ci offrì accoglienza e la sua storia.  Ma non saremmo mai riusciti a raccontarla se non ci fossimo messi a nudo. Una qualità che trovo straordinaria nei popoli indigeni, è la capacità di leggere nel cuore delle persone, fattore questo che rende la realizzazione del documentario etnografico ancora più appassionante ma anche impegnativa. L’esperienza più forte, da questo punto di vista, è stata la necessità di lasciarsi trasformare e di accettare che al ritorno non si sarebbe stati più gli stessi.

La maggior parte dei popoli indigeni ha sviluppato una giustificata diffidenza verso gli occidentali, vissuti perlopiù come sfruttatori e ingannatori, anche quando si presentano in veste di portatori di pace, progresso o aiuti umanitari. Realizzando documentari antropologici trovavo doveroso cercare di dare voce a tutti gli aspetti che in qualche modo hanno concorso a rendere la vita e la sopravvivenza dei popoli indigeni piuttosto complessa e rischiosa; dalla violenza morale e fisica dei missionari cattolici e protestanti allo sfruttamento delle risorse da parte delle industrie petrolifere e del legno. Così questo viaggio nell’altro è diventato occasione di ulteriore riflessione su dove stiamo andando come umanità, e quanto stiamo distruggendo il pianeta e noi stessi. I popoli indigeni, molto più connessi alla natura ed alla saggezza ancestrale hanno molto da dire e da insegnarci al riguardo. Ma siamo disposti ad imparare?

Vincere la diffidenza di capi, sciamani e villaggi non è stato sempre facile. Convincerli che avrei cercato di dar loro voce anziché sfruttarli a livello di immagine ha richiesto talvolta molta pazienza e delicatezza.

Vorrei a questo proposito parlare di come è stato realizzato il film sugli Ayoreo.

Popolo guerriero e fiero, questo gruppo indigeno ha subìto molta violenza psicologica da parte della setta protestante New Tribes, mentre lo sfruttamento delle sue terre da parte di industrie del Petrolio e proprietari terrieri ha costretto molti gruppi ad uscire dalla foresta e a cambiare il proprio stile di vita.

Quando li ho incontrati, nel 2006, erano molto diffidenti riguardo all’uomo bianco e naturalmente poco disposti ad essere ripresi e a raccontarsi. Per i primi due giorni non riuscii quasi a riprendere nulla di interessante e cominciai ad essere molto preoccupata di riuscire a portare a termine il film. In questa situazione è stato decisivo l’appoggio di una donna straordinaria, Verena Reguer, fondatrice del Gat, un’associazione umanitaria in difesa dei diritti Ayoreo, e l’incontro con Padre Giovanni Zanardini, missionario salesiano ed antropologo.

Entrambi hanno in qualche modo mediato i rapporti all’inizio difficili con le comunità garantendo per noi.  Ci sono però voluti diversi giorni di condivisione e di vita insieme a loro, mettendo da parte la preoccupazione di non avere sufficientemente materiale per riuscire a fare le riprese e le interviste necessarie al film, prima di riuscire a guadagnare un po’ di fiducia.

Un giorno riuscimmo ad ottenere l’intervista da un capo villaggio e suo fratello appartenenti ad una comunità che fino a due anni prima aveva vissuto senza alcun contatto col mondo esterno. Questo significa che quelle persone prima del 2004, non sapevano che cosa fosse un’automobile, un aeroplano, per non parlare di radio televisione telefoni cellulari e computer.

All’intervista partecipò tutta la comunità. Mettemmo microfoni collarini ai due fratelli ed usammo anche un microfono panoramico. Dopo la prima domanda rivolta al capo villaggio ci fu un lungo silenzio. Proprio quando stavo per fermare gli operatori il fratello del capo cominciò a rispondere. Il direttore della fotografia Mimmo Pizzigallo fu molto bravo ad inquadrarlo al volo.  Poi intervenne a sorpresa un altro uomo, aggiungendo dettagli interessanti alla storia e così andò avanti tutta l’intervista, raccontata in modo corale dalla comunità, senza sapere o poter prevedere chi avrebbe parlato e quando. Questo ci obbligò ad un grande ascolto, ad un metterci in sintonia con queste persone facendoci in qualche modo invisibili.

Fu davvero una grande esperienza lavorativa ed umana che mi ha insegnato a fare il mio lavoro senza essere invadente ma piuttosto ad essere testimone silenziosa e cantastorie delle vite degli altri.

Pubblicato da Graziella La Rosa

Regista, documentarista, sceneggiatrice, autrice